L’assedio del Castello di Gorizia

Ancor prima di iniziare la nostra narrazione, possiamo subito fare un “mea culpa” e ammettere che il titolo di questo articolo è alquanto generico. Già perché il maniero goriziano (di cui vi abbiamo già parlato un po’ di tempo fa) non ha subito certo un solo assedio. Ricorre proprio quest’anno il centenario della presa di Gorizia – per la precisione il 9 agosto – durante la Prima Guerra mondiale, in quel fatidico 1916 in cui la città veniva strappata agli allora nemici austriaci e restituita, non senza enormi sacrifici, all’Italia (a tal proposito, se volete approfondire l’argomento, è in corso una mostra proprio nelle sale del castello).

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Mura castello Gorizia

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Fatta questa debita premessa, l’assedio di cui vi vogliamo parlare risale al XIV secolo. Lotte per il potere, sgarri politici, manifestazioni di forza, manovre militari e molto altro non sono prerogativa dei romanzi d’azione. Come abbiamo già più volte avuto occasione di vedere, anche la nostra regione vanta episodi storici degni della penna di un fervido romanziere.

I protagonisti della nostra vicenda sono alcuni dei nobili più influenti dell’epoca e il patriarca di Aquileia, ma non uno qualsiasi: Bertrando di Saint Geniès ovvero uno degli uomini che maggiormente hanno segnato la nostra storia o, come meglio lo definì il Leicht “una delle più grandi e belle figure dei patriarchi aquileiesi”.

Bertrando venne eletto patriarca nel luglio del 1334 quando ormai era un uomo anziano (era infatti nato nel 1258). Molto colto, era dottore in legge e insegnava presso l’Università di Tolosa. Era anche cappellano papale e uditore di Rota nonché decano della chiesa di Angoulême. Il patriarcato di Aquileia non viveva, in quegli anni, un periodo positivo della sua storia. Bertrando venne scelto proprio per le sue doti. Il suo compito sarebbe stato quello di restituire l’antico splendore al patriarcato, arginando le ingerenze nobiliari, sempre più insistenti. In breve egli avrebbe dovuto occuparsi della ricostruzione territoriale ed economica dello stato, attuare riforme istituzionali ma anche ecclesiastiche.

Già all’indomani del suo trasferimento, Bertrando dovette vedersela con Rizzardo da Camino il quale aveva occupato il castello di Cavolano sul Livenza e assaltato Sacile. Bertrando non si limitò a recuperare il castello ma anche tutto il Cadore. Abile politico, seppe allearsi con le persone più adatte. Strinse infatti accordi con la repubblica veneta ma soprattutto con il duca d’Austria e con Carlo di Moravia, il futuro imperatore.

Anche la contea di Gorizia attraversava un periodo di particolare debolezza politica. Nel marzo del 1338 morì prematuramente il conte Giovanni Enrico II. Il suo posto fu preso da Alberto IV assieme ai fratelli Enrico e Maniardo, con il placet del patriarca stesso che concesse loro l’investitura ufficiale il 25 febbraio 1339. Nel luglio seguente poi, vennero stipulati a Udine dei patti nei quali le due parti si impegnavano a prestarsi vicendevolmente aiuto in Friuli, Carsia e Istria. Tali patti sarebbero durati a malapena un anno. Come ci narra il patriarca Bertrando stesso

“il conte di Gorizia, aiutato dalla potenza dei conti di Veglia, assalì il fedele nostro e della chiesa di Aquileia Giorgio di Duino; e dopo fatte tregue fra loro, il conte stesso assalì in forze la terra nostra; dal canto nostro noi ci mettemmo sulle difese, ed essendo venuti in aiuto nostro e della chiesa Carlo (di Moravia) e Giovanni (del Tirolo, figlio di Giovanni re di Boemia) con sufficiente moltitudine di cavalieri e di fanti, con loro e colle nostre truppe movemmo contro i nemici; e prima di tutto ci dirigemmo contro Cormons e vi stemmo dieci giorni, e fatto là quel danno che si poteva, alla vigilia di Natale (del 1340) movemmo il campo contro Gorizia e celebrammo la solennità della sacratissima notte della nascita del Salvatore e le tre Messe di quel giorno, cioè la prima dell’alba, all’aurora e la terza solenne, nei campi davanti Gorizia, assistendovi i principi sopraddetti, i conti di Ortemburg con moltitudine copiosa di militi loro e nostri e di altri nobili. Partiti di là il giorno di San Giovanni Evangelista (27 dicembre) dopo dato il guasto, andammo a Belgrdo e tenemmo assediato Belgrado e Latisana sino all’indomani dell’Epifania (7 gennaio 1341). Allora il conte chiese tregua per un anno ed a sua domanda la concedemmo […]”

Quindi Bertrando si accampò effettivamente ai piedi del castello di Gorizia e ivi celebrò messa davanti ad alcuni dei nobili più potenti di quei luoghi ma non vi fu, come forse ci si poteva aspettare, uno scontro armato, un vero e proprio assedio. Anzi, Bertrando e gli altri nobili soggiornarono davvero poco a Gorizia, preferendo poi dirigersi, come riferisce il patriarca stesso, verso Belgrado e Latisana. Come va interpretata una tale strategia? E perché il conte di Gorizia, nonostante non avesse subito nemmeno un danno, chiese – ed ottenne – un tregua? Le azioni del patriarca Bertrando furono meramente rappresentative, manifestazioni di propaganda e di forza atte a ribadire che chi osava portare guerra al patriarca, di fatto la portava alla Chiesa stessa e ciò era sacrilego.

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Quello dell’assedio di Gorizia è solo uno dei numerosi episodi che videro coinvolto Bertrando e i conti Goriziani: pochi anni dopo, nel 1344, le ostilità si riaccesero e, a fasi alterne, si trascinarono fino al 1350 quando i conti Mainardo ed Enrico di Gorizia, alleatisi due anni prima con il comune di Cividale, in combutta con altri nobili (tra cui Gualtiero Vertoldo IV ed Enrico di Spilimbergo, i Villalta e Federico da Portis) ordirono una congiura per assassinare il novantaduenne Betrando. Ma questa è un’altra storia.

 

 

Il castello di San Pietro a Ragogna

L’iniziativa Castelli e terremoto. 1976-2016, promossa dal Consorzio Castelli FVG, ci consente di scoprire diversi angoli del nostro Friuli e le alterne vicende che hanno avuto, non solo a causa dei movimenti tellurici.

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Castello di Ragogna

L’angolo che qui vogliamo mostrarvi è il castello di Ragogna (o Castello di San Pietro, dal nome della frazione che lo ospita), costruito su un colle che si affaccia sul Tagliamento.

Quello che vediamo oggi è in realtà una ricostruzione post terremoto del 1976. Lo capiamo dalla perfetta regolarità con cui sono distribuite le pietre del mastio e delle mura.

Obiettivo del restauro è stato quello di ridare al maniero l’aspetto che doveva avere alla fine XVII secolo; acquistato nel 1500 dai conti di Porcia, che vi risiedettero molto sporadicamente, dal 1800 risultò abbandonato e in rovina.

Il luogo tuttavia continuò ad essere frequentato dai paesani, in quanto poco distante dall’ingresso del castello sorge la chiesetta di San Pietro, unica chiesa della frazione fino ai primi del 1900, quando venne costruita l’odierna chiesa principale in piazza.

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L’antico portale d’ingresso del primo castello, distrutto dal terremoto del 1511 che portò alla costruzione del nuovo castello di poco più a nord.

Oggi possiamo godere quindi di una struttura a fini didattici, con ricostruzione delle parti castellane deteriorate (come i camminamenti di ronda, gli oscuranti dei merli… il gabinetto per le guardie!), con sale espositive dedicate al Tagliamento, alle tecniche di scrittura e miniatura medievali e ovviamente alla storia del castello.

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Il castello visto dalla Pieve di San Pietro. Si intravedono le ricostruzioni in legno delle strutture sommitali delle mura.

Uno dei maggiori punti di forza della visita è il panorama che si gode dal terrapieno dell’antico castello: da esso si domina il corso del Tagliamento e il colore azzurrissimo delle sue acque è una visione da cui non ci si vorrebbe mai separare.

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Il Tagliamento visto dal terrapieno del castello.

Approfittate dell’iniziativa castelli e terremoto, le visite dureranno ancora fino al 26 giugno! Pagina ufficiale dell’evento: http://www.consorziocastelli.it/visitatori/eventi/notizia.2016-05-17.1642840678

Il castello è aperto come da pagina ufficiale: http://www.ragognalive.it/site/visitare-ragogna/castello-di-san-pietro/

di Erik S.

Il castello di Cassacco

Il castello di Cassacco è uno dei numerosi manieri del Friuli collinare. Situato vicino a Tricesimo, in provincia di Udine, la residenza castellana è oggi abitata ma è possibile visitarla in occasione della manifestazione “Castelli aperti”.

Come tutte le fortificazioni, anche Cassacco sorge in un luogo strategico, a poco meno di 200 m sul livello del mare e a guardia dell’antica strada che collegava Aquileia al Norico (una regione che comprende all’incirca l’attuale Carinzia). L’intera area, come ricordato, pullula di costruzioni di questo genere: di epoca medioevale perlopiù, molte hanno origini più antiche e più precisamente romane. Cassaco appartiene a questo gruppo: si ritiene infatti si sia sviluppato a partire da una specula romana, ovvero una torre di avvistamento.

Ma facciamo un po’ d’ordine.

Dobbiamo per prima cosa precisare che il castello che oggi possiamo ammirare è stato completamente ricostruito. Per una volta il terremoto del 1976 – che pure fece notevoli danni – non c’entra. Quando nel 1947 la famiglia Castanetto, attuale proprietaria dell’edificio, comprò la proprietà dai signori di ”Montegnacco” che la possedevano dal 1466, il castello era poco più che un ammasso di ruderi. Grazie a una precisa analisi filologica dei documenti e all’intervento della Soprintendenza, è stato possibile ricostruire il castello nelle sue forme più recenti, ovvero posteriori al XVIII secolo.

Il primo documento in cui viene nominato un “castrum Cassianum” risale al 1332 ma già in precedenza il luogo era stato menzionato in almeno altri due documenti, uno del 1202 e uno del 1254.

Castello di Cassacco

Al visitatore odierno la struttura si presenta dominata da due torri raccordate tra loro da un corpo centrale. La torre più antica è quella a sud ovvero quella di destra e viene fatta risalire all’XI-XII secolo ma si ipotizza anche che, in realtà, tale torre sia lo sviluppo della precedentemente ricordata specula romana; in questo caso la datazione va anticipata addirittura al II o III secolo d.C.. Anche il corpo centrale ha subito delle modifiche poiché attorno al XVIII secolo è stato sopraelevato (inizialmente c’era un solo piano).

Durante il Basso Medioevo e l’età moderna vi sono stati comunque diversi lavori di rifacimento che hanno profondamente rimodellato l’originario aspetto del maniero.

Una volta entrati all’interno del cortile la facciata del castello ci accoglie imponente. Prima di addentrarci oltre il ponte che sovrasta l’ormai prosciugato fossato, volgiamoci a guardare il complesso si edifici che si ergono alle nostre spalle.

Castello di Cassacco

Appena entrati, sulla destra, possiamo vedere l’area adibita al ricovero dei cavalli: è l’equivalente di una piazzola per il parcheggio dei giorni nostri! Vi sono poi  le dimore di coloro che lavoravano all’interno del castello e tra questi edifici è possibile individuare anche le cucine. Nel lato settentrionale c’è invece un piccolo palazzetto che veniva utilizzato per ospitare gli ospiti di un certo riguardo ma non troppo (infatti gli ospiti più importanti erano accolti all’interno del palazzo principale).

Se dal ponte che dobbiamo attraversare buttiamo un occhio nel fossato, nella parte settentrionale, noteremo in primo luogo l’assenza di acqua. Il pozzo da cui veniva prelevata l’acqua in effetti attingeva a una falda che, nei secoli, si è abbassata ed è divenuta inutilizzabile. Non fatevi ingannare dal pozzo che vedete sulla vostra destra una volta varcato il ponte: si tratta di un manufatto ottocentesco che ha una funzione essenzialmente estetica.

Noterete però delle rientranze nel muro: si tratta di antichi alloggiamenti per delle statue, visibili solo da chi si trova all’interno del castello e si affaccia alle finestre. A questo punto è normale un senso di smarrimento da parte nostra: abituati come siamo a sfoggiare – qualora ce lo possiamo permettere – oggetti di lusso (i famosi status-symbol), potremmo trovare assolutamente illogico prevedere di sistemare delle statue in un luogo in cui solo il padrone di casa le può ammirare. Ebbene, è questo il momento di compiere una delle azioni più difficili ma necessarie se si vuole davvero comprendere un’epoca: calarsi nella mentalità di un tempo e un sistema di valori diversi dal nostro. Una volta, infatti, non si sentiva il bisogno di ribadire la propria importanza sociale o economica mostrando gli oggetti più belli che si possedevano ma, al contrario, il godimento di queste bellezze era riservato ai soli proprietari ed, eventualmente, alla cerchia più intima e ristretta di amici. Insomma, l’esatto opposto di oggi!

Ma procediamo con la descrizione del castello: una volta superato l’atrio di ingresso, ci accoglie una corte interna. I tre archi che abbiamo attraversato erano stati una volta tamponati ma, grazie all’interevento della Soprintendenza, sono stati riaperti. Affacciandosi dal terrazzo si gode la vista sull’area circostante. Da qui è possibile vedere all’orizzonte un altro fortilizio ed è ad oggi l’unico visibile. Anche qui occorre una precisazione per comprendere meglio quest’ultima  affermazione. Il sistema difensivo del Friuli era stato progettato in modo funzionale: da ogni castrum doveva essere possibile avvistarne altri in modo da poter lanciare, in caso di pericolo, l’allarme mediante l’accensione di fuochi, in una sorta di enorme telefono senza fili. Oggi la natura è stata profondamente modificata (ad esempio sulle colline oggi ci sono piccoli o grandi boschi, una volta erano invece sgombere da vegetazione che cresceva troppo in altezza, proprio per non occludere la visuale) e ci sono inoltre abitati una volta inestenti. Ecco spiegato perchè, affacciandosi da un qualsiasi castello, spesso non è possibile vederne altri all’orizzonte nonostante una volta le cose fossero ben diverse.

L’edificio che si trova nell’angolo settentrionale era riservato alle guardie che qui si preparavano per il servizio di ronda, effettuato su un camminamento ligneo oggi non più esistente. Si possono però ancora vedere i sostegni lapidei di questo camminamento.

 Castello di Cassacco

 Castello di Cassacco

Un’ultima curiosità: nell’atrio, appena varcato l’ingresso, avrete forse notato due statue antiche: si tratta di due opere di epoca romana ed in particolare sull’identità del personaggio di una di esse, non c’è ancora pieno accordo tra gli storici. Quello che è certo è che si tratta di due alti funzionari dell’esercito romano e ciò lo si deduce dall’abbigliamento e dalle armi indossate.

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Queste e molte altre informazioni vi verranno fornite se deciderete di visitare il castello in occasione della rassegna “Castelli aperti”: vi sarà infatti possibile apprezzare l’esterno ma anche l’interno della dimora: lì potrete scoprire tante curiosità e aneddoti legati alla casa, alle famiglie che l’hanno posseduta e, più in generale, alla storia della nostra regione.

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FONTI:

Virgilio Gianni, Andar per castelli : itinerari in Friuli Venezia Giulia. I castelli del Friuli collinare, vol. 1, Udine : Forum, 2003.

Racconto della guida in occasione della visita alla dimora (9 aprile 2016).

Il Castello di Strassoldo e i suoi legami con Vienna

Il castello fu fondato nel 1035 dal nobile tedesco Woldarico Strassu, nel sito di un preesistente fortilizio di epoca ottoniana, o forse ancor prima longobarda.

Una leggenda invece farebbe risalire al 565 la costruzione dell’originario sito, per volontà di Attila, il quale avrebbe reimpiegato le pietre provenienti dalla conquistata città di Aquileia.

Il castello, che si compone di due manieri distinti, il Castello di Sopra e quello di Sotto, divenne proprietà degli Strassoldo (un ramo dell’antica famiglia di Lavariano) a partire dal 1188.
Il complesso è immerso in un bosco circondato da fiumicelli d’acqua risorgiva.

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Al Castello di Sopra si accede attraverso Porta Cistigna che oggi ha sembianze settecentesche, ma in realtà risale già al 1322.

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Il complesso del Castello di Sopra è composto da edifici un tempo adibiti a scuderie, ad uso agricolo e amministrativo e dall’elegante palazzo signorile affiancato dalla Torre Ottonina e affacciato su uno splendido giardino alberato circondato da corsi d’acqua.

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Tutti questi edifici si articolano attorno alla chiesa di San Nicolò, ricordata dal 1333-1334 e più volte ricostruita (il campanile, invece, fu costruito molto più tardi, nel 1726). Particolare è l’elaborata croce di pietra murata all’esterno dell’abside e databile tra i secoli XII e XIII, mentre all’interno della chiesa sono custoditi esempi di arte locale, come l’altare rinascimentale del Cristo Risorto, attribuito al lapicida Bernardino da Bissone.

La chiesa è ricordata perchè qui vennero celebrate le nozze tra il feldmaresciallo dell’esercito asburgico Johann Joseph Wenzel Anton Franz Karl Radetzky conte di Kadetz (1766-1858) e la contessa Franziska Romana di Strassoldo.

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Proseguendo verso sud si erge il Castello di Sotto, documentato per la prima volta nell’anno 1360. Ad esso vi si accedeva dalla Pusterla secentesca cuspidata in cotto, fiancheggiata a ovest da un muro tardo cinquecentesco, merlato e curvo, detto Gironutto.

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Anche in questo caso il palazzo si affaccia su un curato giardino ed un grande parco, ed è fiancheggiato da edifici agricoli, dall’ex scuderia porticata e dalla chiesetta di San Marco (1575), collocata poco fuori dalla Pusterla.

Interessante è l’ottocentesca ex pileria del riso appartenente al complesso del Castello di Sopra, ancora dotata di ruota, collocata a sud, verso il Castello di Sotto.

Perché interessante?

A questa pileria è legata la storia della nobildonna Rosa, figlia del barone Franz Kuhn von Kuhnenfeld, il quale rivestì diverse importanti cariche presso la corte imperiale asburgica. Nel 1878 costei sposò il conte Giulio Cesare di Strassoldo, dal quale ebbe due figli. Nel 1893 rimase purtroppo vedova all’età di 37 anni e così dovette, come si suol dire, “rimboccarsi le maniche”: dimostrando ottime abilità imprenditoriali, trasformò il vecchio mulino delle farine in riseria.

All’interno della riseria avveniva il processo di pilatura di tutto il riso proveniente dalle risaie italiane e destinato poi alle cucine della corte imperiale asburgica di Vienna, dove veniva preparato da cuochi italiani.

 

 

Il Castello di Rive d’Arcano e un antico delitto

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D’ARCANO: la denominazione suscita immediatamente curiosità ed emozioni perché rimanda a un luogo misterioso e occulto che chissà quali segreti nasconde.
In realtà ci si riferisce al nobile casato che abitò queste terre, quello dei Tricano, ma ancor prima dei Corno.
Tutto ebbe inizio nel 1161, quando l’imperatore Ottone II concesse ad un certo Leonardo, proveniente da Passau (città della Baviera) e appartenente alla famiglia reale della Croazia, diversi ettari di terra che si estendevano dalla località ponte Pieli fino a valle dell’attuale abitato di Arcano Inferiore.
Leonardo costruì il suo castello dove oggi si trova la chiesetta di San Mauro, sulle rive del fiume Corno, che sfruttava per la pesca; si fece così chiamare “Leonardo di Corno” e adottò come stemma quello della Croazia, cioè lo scudo con la scacchiera bianca e rossa.

Il castello venne più volte danneggiato a causa dell’invasione degli Ungari, ma nonostante tutto, uno dei due figli di Leonardo, Bertoldo, continuò ad abitarci col nome di Bertoldo di Corno.
Invece l’altro figlio, Ropretto, fece costruire la propria residenza fortificata in un sito più alto e strategicamente più sicuro, cioè l’attuale castello, e assunse il nome di Ropretto di Tercano, poi di Tricano, aggiungendo allo stemma di famiglia tre cani (levrieri) simbolo di fedeltà al Patriarca, al Papa e all’Imperatore.

La fedeltà al Patriarca, però, non fu sempre tale: la famiglia partecipò alla congiura contro il Patriarca Bertrando, che fu ucciso nel 1350 nella piana della Richinvelda, e per vendicarsi il Patriarca Nicolò di Lussemburgo fece distruggere completamente le residenze di tutti i congiurati, tra le quali quella di Bertoldo di Corno.

Rimase così un solo castello, quello “di Sopra”.

L’unico ingresso è la torre scudata davanti alla quale, un tempo, esisteva un fossato d’acqua che veniva attraversato grazie un ponte levatoio.

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I due stemmi presenti nelle volte della torre portaia identificano subito i proprietari del castello.

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Il primo è uno scudo con svolazzi (retaggio delle crociate) raffigurante gli scacchi e i tre cani, diviso in due parti uguali, sormontato dall’iscrizione F (= Francesco o Fulcherio) T (= Tricano) M (= maresciallo) P (= patriarcale).

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Il secondo stemma, posto alla sommità della volta successiva, è un’elaborazione del primo eseguita dopo il 1420, quando sotto il dominio della Repubblica di Venezia, gli Arcano supplicarono il Doge di poter aggiungere allo stemma metà dell’Aquila Patriarcale, in memoria del ruolo che ebbero di Gonfalonieri e porta Vessillo del Patriarca.

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Il castello è circondato da tre ordini di mura con merli quadrati, ovvero “Guelfi”, che sottolineano l’orientamento filo-papale degli Arcano (differenziandosi dai castelli con merli a coda di rondine, cioè “Ghibellini”, che identificano un orientamento filo-imperiale).

Non appena varcata la torre portaia, una stradina sulla destra conduce al cortile esterno retrostante al palazzo, dal quale si ammira l’intera vallata fino al torrente Corno, che faceva da confine tra i territori degli Arcano e quelli di San Daniele del Friuli.

Pensate che un tempo da quassù, sparsi per la vallata, si intravedevano anche i mulini, i battiferro ed altre botteghe artigiane di proprietà degli Arcano, che venivano alimentati dalla forza motrice del torrente Corno!

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Sempre da questo cortile, guardando verso il basso, ci si affaccia verso la cinta muraria più esterna che delimita uno spazio chiamato lizza, entro il quale si svolgevano giostre e tornei cavallereschi, e venivano ospitati persino i mercati.

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Ma facciamo un po’ di passi indietro!!!

Ritornando all’ingresso della torre, non svoltiamo a destra ma proseguiamo diritti verso la chiesetta gentilizia dedicata alla Madonna della Neve (Sancta Maria ad Nives), perché secondo la tradizione il 5 agosto di secoli fa cadde miracolosamente la neve sui colli di Arcano. Al suo interno sulla sinistra è custodito un pregevole battistero del 1541, opera del lapicida Pilacorte, mentre al centro dell’abside è collocato l’altare in marmo bianco di Carrara sovrastato dalle statue dei due Patriarchi di Aquileia, Beato Bertrando e San Paolino.

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Inoltriamoci finalmente all’interno del mastio, dove fino alla fine della Grande Guerra si celava un terribile segreto: con i lavori di riparazione del castello che, durante l’invasione austro-ungarica, era stato trasformato in ospedale militare, fu trovato lo scheletro di una donna. Ma chi era costei? Tra poco ve lo sveliamo.

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L’accesso al castello avviene dal cortile attraverso l’atrio lastricato con arenaria quadrata dove, sulla parete a destra della porta d’ingresso, ad accoglierci c’è il giullare in livrea del ‘700, Angelo Candusso, con la scritta “Angelo Candusso servì fedelmente e bevè terribilmente – Nato nel 1710”, raffigurato nel 1756 da Andrea Urbani. Nella parete di fronte è appesa una tela del 1480 con i ritratti dei Cavalieri Francesco e Bartolomeo d’Arcano, con la Croce di Malta sul petto.

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Dall’atrio si accede nel tinello, con il soffitto in gesso di stile veneziano settecentesco.

Si dice che questa fu la stanza in cui venne uccisa la Contessa Todeschina di Prampero, sposa nel 1634 di Francesco d’Arcano, ma già vedova del fratello di costui.

Entrambi avevano un carattere molto difficile. Come si suol dire: “Dio li fa e poi li accoppia”!!!.

Francesco, che non conobbe mai il padre, fu allontanato dalla famiglia perché uccise in una lite il cugino Agricano, colpevole di aver sposato sua madre, Anna di Strassoldo, sottraendogli l’eredità. Anche Todeschina non fu mai amata in famiglia per via del suo carattere ribelle e violento.

Sembravano fatti l’uno per l’altra!!!

In realtà, proprio a causa del loro brutto carattere il matrimonio durò assai poco: durante una lite, forse scatenata da una forte gelosia, Francesco finì per accoltellare la moglie, la quale prima di morire avrebbe scritto col proprio sangue le sue iniziali “TP”, rimaste ben visibili fino a prima del terremoto del 1976. Si dice che avesse scritto col proprio sangue anche la data “1635″ che fino ad una sessantina di anni fa compariva sopra lo stipite della porta che da questa stanza conduce alla sala da pranzo (poi fatta cancellare dalla contessa Elena d’Arcano). In realtà era stata scritta semplicemente con un colore rosso.

Dopo averla uccisa, Francesco decise di nascondere il cadavere murandolo in una parete del castello, e per evitare di perdere la dote della moglie ormai scomparsa, decise di spenderla fino all’ultimo centesimo in costosi interventi per il castello, come le pregevoli rifiniture in marmo delle porte al piano superiore.

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Dal tinello si accede alla sala da pranzo, o Sala degli affreschi, interamente dipinta dall’udinese Andrea Urbani tra il 1760 e il 1765, con scene bucoliche di caccia con cani e animali selvatici alle pareti, mentre sul soffitto è raffigurata al centro Minerva che viene gloriosamente incoronata, circondata da putti che sorreggono i suoi simboli (elmo, ulivo, gufo ecc.), mentre ai quattro lati, entro dei lunotti, sono raffigurate le arti classiche: Letteratura, Architettura, Musica e Pittura.

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La sala da pranzo conduce alla vecchia cantina, un tempo sala delle armi, che a sua volta porta all’esterno, nel cortile. Prendendo la ripida scala si raggiunge il piano superiore, caratterizzato da una serie di stanze intercomunicanti. La prima sala è quella delle feste, arredata con una lunga tavolata rettangolare al centro e alle pareti i ritratti di Francesco e Todeschina, e un monumentale camino in marmo rosato affrescato con lo stemma degli Arcano. Accanto a questa sala c’è una stanza, un tempo del fattore, dove venivano custoditi i registri della contabilità dell’azienda agricola dei signori specializzata, un tempo, nell’allevamento del baco da seta.

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Le guide e i visitatori che ancora oggi entrano nel castello e attraversano le sale sostengono di sentirsi osservati dai numerosi volti dei d’Arcano appesi alle pareti, soprattutto da quello di Todeschina che sembra a volte mostrare persino un ghigno.

Sarà solo suggestione?

La vita nel castello di Gorizia: storie di amore e avidità

Oggi vi faremo conoscere nell’ “intimo” il castello di Gorizia: non sarà una semplice visita, ma vi racconteremo come si svolgeva la vita all’interno del castello, gli omicidi e gli amori (veri o leggendari che siano!) che qui si consumarono.

Iniziamo il nostro viaggio nel passato!

Per raggiungere la fortezza, si sale per Borgo Castello fino a costeggiare le dimore delle antiche famiglie favorite dei Conti di Gorizia (quelle cioè che abitavano vicino al maniero e godevano della protezione all’interno delle mura): sulla destra si notano le ampie arcate di Casa Rassauer, eretta nel 1475 da Wolfgang Rassauer, mentre a sinistra le dimore cinquecentesche dei Dornberg e Tasso, oggi sedi dei Musei Provinciali dedicati alla Grande Guerra, alla moda ed ai reperti archeologici.

Procedendo verso il castello, si passa davanti alla trecentesca Chiesa di S. Spirito dalle tipiche fattezze tardo gotiche.

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Eccoci al portone d’ingresso del maniero, sovrastato dal Leone di S. Marco, simbolo del dominio (breve) di Venezia sui territori del Goriziano. Da questa altezza è possibile ammirare il paesaggio circostante, caratterizzato da distese di verdi colline.

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E’ documentata l’esistenza di un luogo fortificato già nell’XI secolo, con un susseguirsi, nel corso dei secoli, di modifiche che gli hanno conferito l’aspetto che grossomodo ha tutt’oggi.

Il castello fu residenza dei Conti di Gorizia, il cui casato ebbe origine con Mainardo I (1102- ca. 1142) e fu uno dei più potenti feudatari dell’impero teutonico. Il casato infatti possedeva grandi feudi in Istria, Tirolo, Carinzia, Stiria e Carniola, e la loro influenza era garantita dai numerosi legami parentali con altre potenti famiglie sparse in Europa (Austria, Svevia, Ungheria ecc.). I Conti di Gorizia erano visti dal popolo come spregiudicati, avidi e brutali e per questo, attorno a loro e al loro castello, nacquero diverse leggende come quella della Contessa Caterina.

Costei era una donna avidissima e sanguinaria che, dopo la morte del marito, rimase a vivere nel castello sola con i suoi sette alani e il fedele servitore Giuseppe. La Contessa possedeva un ricco tesoro che custodiva gelosamente in uno scrigno di ferro nascosto nei sotterranei del castello. Una notte bussò un nobile cavaliere proveniente dalla Germania chiedendo ospitalità nell’attesa delle prime ore del giorno per poter riprendere il viaggio e adempiere l’ordine ricevuto dall’Imperatore di consegnare al Patriarca di Aquileia un sacchetto di monete d’oro. La bramosa Caterina, intenzionata a sottrargli l’oro, acconsentì e durante la notte, aiutata dal suo servitore, uccise il cavaliere. Tanti altri subirono la sua stessa sorte, finché una notte la morte stessa fece visita alla Contessa che fu trovata priva di vita dal suo servitore, il quale non le diede nemmeno degna sepoltura e la lasciò lì nelle segrete del castello, in attesa che il diavolo se la portasse via. Non si seppe più nulla né di Giuseppe né del tesoro.

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Chissà, forse è ancora nascosto nei sotterranei del castello!!!!

Fin dal XV secolo, il popolo sostiene che nelle notti di luna piena, i fantasmi della contessa e dei sui cani ritornano dall’oltretomba e si aggirano per il castello temendo che qualcuno voglia rubare il tesoro.

Un’altra storia racconta della gelosia e della bramosia dei membri di questo casato; in questo caso però non si tratta di una storia di omicidi ma di una storia d’amore, dal lieto fine.

Nel 1303, abitava presso il castello il Conte Alberto II, padre di tre figli maschi e di una bellissima figlia di nome Ermenegilda. Per non disperdere il patrimonio feudale, la fanciulla venne costretta a farsi monaca e inviata in un convento dell’Alto Adige. A scortarla fu il cavaliere Balthasar von Welsberg, ricco feudatario con possedimenti in Stiria. Durante il viaggio i due si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra e decisero di giurarsi eterno amore. Così si fermarono al castello di Sillian, dove fra Giocondo, priore della collegiata dei Santi Candido e Corbiniano di San Candido, li sposò. Venuti a conoscenza del matrimonio, i fratelli di Ermenegilda, preoccupati di perdere parte del patrimonio, decisero di muovere battaglia contro il cavaliere Balthasar ma, grazie alla mediazione di fra Giocondo, lo scontro non avvenne e i fratelli accettarono di riconoscere il matrimonio della sorella.

Curiosa questa famiglia non vi sembra?

Pensate che, secondo la tradizione, questa nobile famiglia di origine germanica avrebbe imposto nella contea di Gorizia lo ius primae noctis, ossia il diritto del Conte di trascorrere la prima notte di nozze con la sposa dei suoi servi o sudditi. Tale pratica, secondo gli studiosi, sarebbe infondata, anche se molti antropologi ritengono possa avere un nesso con alcuni riti pagani secondo i quali la verginità della sposa era un sacrificio offerto alla fertilità della terra.

Vista la mania di grandezza di questa nobile famiglia e il continuo desiderio di ampliare i possedimenti attraverso convenienti matrimoni, presso il castello dovevano aver luogo numerosi e ricorrenti banchetti, cerimonie e riunioni politiche, e di conseguenza le cucine e le sale da pranzo dovevano essere molto attive e ben attrezzate per soddisfare i numerosi ospiti.

E infatti il percorso di visita inizia proprio con la Sala da pranzo e la Cucina, dove il Conte e i suoi invitati sedevano sui tipici sedili a trespolo, impreziositi dai decori ad intaglio, davanti alla tavola apparecchiata con bicchieri (o coppe), brocche, piatti in peltro, scodelle, cucchiai, coltelli, piccoli spiedi per infilzare il cibo (l’uso della forchetta venne accettata sul finire del XV secolo), taglieri e tovaglioli, in attesa che i servitori giungessero dalla cucina con le pietanze.

Gli alimenti cardine nel medioevo erano il maiale e i cereali (il frumento per i ceti più elevati!).

All’interno della cucina non poteva mancare il focolare, sul quale era posto un calderone. Le braci venivano tolte dal fuoco e disposte a scaldare i fornelli, costituiti da loculi aperti sul davanti e dotati di un foro superiore di diverse dimensioni a seconda della grandezza della pentola che veniva posta sopra. I recipienti per la cottura potevano essere in terracotta invetriata, ferro o pietra ollare, a forma chiusa e con fondo convesso per la cottura di cibi liquidi, a forma aperta con il fondo piatto per la cottura dei cibi asciutti.

Se vi concentrate, potete sentire i rumori delle posate, dei vini versati nei bicchieri, le chiacchiere tra il Conte e i suoi ospiti, il via vai dei servitori, ma anche l’odore delle braci e delle carni che dalla cucina giungevano alla sala da pranzo!!!

Dalla cucina si attraversa un porticato, caratterizzato dalla presenza di un caminetto di XV secolo sulla destra, che si affaccia sulla Corte dei Lanzi, dove sono ancora visibili le fondamenta del mastio originale.

Si procede poi verso la Sala dei Cavalieri, un tempo impiegata come prigione e oggi sede di una ricca collezione di riproduzioni filologiche di armi bianche appartenenti all’epoca tra il XIII e il XVI secolo.

Salendo le scale si giunge al piano nobile dove si trova il Salone degli Stati Provinciali, che un tempo ospitava le riunioni governative della città.

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Da qui, la Loggia degli Stemmi conduce ad altre stanze arredate con mobili e quadri antichi.

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Questi ambienti si collegano alla Sala della Musica e alla sala di rappresentanza del castello, la Sala del Conte, sede di conferenze ed incontri.

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Una scalinata in legno permette di raggiungere il secondo piano, dove ci si immerge nell’atmosfera mistica della Cappella di San Bartolomeo. A decorare l’ambiente sacro sono delle tele di scuola veneta e frammenti di affreschi cinquecenteschi.

La visita si conclude nella Sala Didattica, dove sono stati allestiti plastici e pannelli esplicativi che raccontano la storia della Contea di Gorizia tra l’XI e il XVI secolo (cioè fino alla morte dell’ultimo Conte Leonardo), e nel Cammino di Ronda che consente allo sguardo dello spettatore di dominare sulla città di Gorizia e sui territori circostanti.

Vogliamo concludere ricordando che le suggestive atmosfere di questo castello hanno fatto da scenario in alcuni episodi della terza e ultima serie televisiva I Borgia.

Il Castello di Duino e i suoi signori: tra proprietari realmente esistiti e fantasmi che ancor oggi lo abitano

Duino, mezzanotte: presso le rovine dell’antico castello, costruito a strapiombo sul mare nell’XI secolo, qualcuno ha acceso un candelabro.

E così accade ogni notte verso mezzanotte.

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Ma l’evento si infittisce di mistero se diamo ascolto a coloro che sostengono di aver visto il candelabro spostarsi da un ambiente all’altro della rocca, librato nel vuoto. O meglio, più che librato nel vuoto parrebbe – dicono – trasportato dall’immagine inconsistente di una donna, con abito e velo color bianco candido.

Si tratta dell’antica castellana Esterina da Portole (precisamente del suo spirito!!!), oggi conosciuta come la “Dama Bianca”.

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Esterina era una donna buona e innamoratissima del marito tanto da riempirlo di continue attenzioni e tenerezze, ma riceveva in cambio solo disprezzo e offese. Un giorno, il crudele marito, infastidito dall’amorevole moglie, con l’inganno la condusse su una delle rocce sotto le muraglie del castello e la scaraventò giù dal dirupo. L’urlo dell’innocente impietosì il cielo che la trasformò in una bianchissima pietra prima che cadesse in mare e morisse. Da quel giorno, l’anima inquieta della Dama, a mezzanotte, lascia la roccia e vaga per le rovine del castello fino alla stanza in cui un tempo si trovava la culla del figlio, e qui vi rimane fino all’alba per poi ritornare alla roccia; c’è chi dice di averla anche sentita piangere!!!.

Voi direte: «Ma stiamo parlando di un fantasma! Nessuno crede ai fantasmi!». Eppure Esterina “esiste e non esiste”, ad ognuno la volontà di crederci o no: ai piedi dell’antico castello, è visibile un masso bianchissimo che ha le sembianze di una donna velata. È da qui che il fantasma della donna prenderebbe vita!

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Non sappiamo nulla su chi fossero lei e il marito. Probabilmente discendevano dai Duinati, signori feudatari di stirpe germanica che nell’XI secolo si insediarono presso i resti di un fortilizio militare romano (fatto costruire dall’Imperatore Diocleziano), e qui costruirono il proprio castello, andato poi distrutto nel XV secolo dai Turchi.

Osservati dall’arcana presenza, lasciamo le rovine dell’antico castello, per trasferirci in quello Nuovo, voluto sul finire del XIV secolo da Ugone, ultimo rappresentante della dinastia dei Duinati.

La costruzione fu portata a termine dal successore, Ramberto di Walsee (casato di Svevia), il quale nel 1472 lo vendette agli Asburgo, che vi misero al comando diversi Capitani: Nicolò Luogar fino agli inizi del XVI secolo, e poi la famiglia Hofer fino al 1587, anno in cui morì l’ultimo discendente maschio, Mattia Hofer.

Grazie al matrimonio tra Lodovica Hofer e il conte Raimondo VI, appartenente al ramo lombardo della famiglia Torre-Valsassina (dal quale derivano anche i Thurn und Taxis ed i conti Thurn del Tirolo e della Svizzera), il feudo passò ai Torriani. È a questo punto che il castello medievale diventa una residenza principesca in stile rinascimentale, adatta a ospitare grandi compositori, musicisti e poeti.

I Thurn-Hofer-Valsassina di Duino furono mecenati di noti poeti, scrittori e musicisti europei ed ebbero un ruolo importante nello sviluppo di attività sociali e culturali.

Teresa Maria Beatrice Thurn-Hofer-Valsassina (1817-1893), donna di immensa cultura, ospitò personaggi illustri come Franz Listz, Johann Strauss, Gabriele d’Annunzio. A lei si devono i versi ispirati alla leggenda della Dama Bianca:

«[…] Chi si fosse quel sire feroce
chi la donna del misero fato,
nemmen l’eco lo dice in sua voce
che con essa nel sasso ammutì […]»

Anche la figlia Marie, che sposò il lontano cugino Alexander von Thurn und Taxis, fu amante delle arti: ospitò il poeta boemo Rainer Maria Rilke, che le dedicò le famose Elegie Duinesi.

Pensate a questi illustri personaggi che, come noi visitatori di oggi, hanno avuto il piacere di camminare per le stanze del castello lasciandosi suggestionare dalla sua storia e dalle sue leggende.

Anche loro, come noi, hanno passeggiato per il parco del castello, godendo del favoloso panorama in cui cielo e mare si fondono creando una scala di sfumature d’azzurro.

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Un vialetto, costeggiato sulla destra da imponenti sculture in pietra raffiguranti illustri personaggi di epoche passate, conduce all’ingresso che ospita numerosi ritrovamenti di epoca romana.

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L’ingresso porta, sulla sinistra, alla cosiddetta Sala Grotta, un’ambiente dalle fattezze di una grotta termale in stile romano-orientale in cui è possibile rilassarsi, disturbati solo dal quieto zampillare dell’acqua della fontana in fondo alla stanza.

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Sulla destra, si apre invece l’ingresso della Hall che ospita una collezione di antichi reperti, nonché oggetti e documenti dei signori proprietari del castello. In fondo si intravede la scala Palladio che ci condurrà ai piani alti della residenza.

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Camminando tra le sale, siamo continuamente osservati dai ritratti degli antichi antenati della nobile famiglia.

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Un’ampia terrazza, ci permette di affacciarci e ammirare le rovine dell’antica rocca, e lo Scoglio di Dante, chiamato così perché si narra che Dante Alighieri, in visita al castello in qualità di ambasciatore di Cangrande della Scala, si sedette su questo scoglio e compose la seguente terzina della Divina Commedia, probabilmente dedicata a Duino:

«Io venni in luogo d’ogni luce muto
che mugghia come fa mar per tempesta
se da contrari venti è combattuto»

Scendiamo le scale e prima di lasciare la nobile dimora, ci fermiamo ad ammirare l’ampio cortile, dove quattro gradinate ci conducono all’ingresso dell’antica torre all’interno della quale è stata allestita una mostra permanente dedicata alla Grande Guerra.

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Salite in cima e, lasciandovi accarezzare il viso dal piacevole vento che con sé trasporta il profumo del mare, ammirate la baia di Duino alla quale è legata un’altra leggenda, quella di due sorelle, molto belle, che ogni sera, malinconiche e solitarie erano solite passeggiare lungo le rive della costiera per osservare il crepuscolo sul mare, fino a quando un giorno un’enorme ondata le trascinò nel fondo del mare. Da quella volta, nei giorni di tempesta, si vedono lampeggiare sulle rocce delle luci azzurrine, che si dice siano gli spiriti delle due sorelle.

Capite dunque perché Duino è considerato un luogo magico, ricco di storia, in cui si ha l’impressione di essere osservati e seguiti da fantasmi di castellani che, ancora troppo legati a questo bellissimo luogo, rivivono nei corridoi e nelle sale del castello e dell’antica rocca.

Oggi il castello è un vivace polo culturale, grazie all’erede Carlo Alessandro!

Alla riscoperta del Castello di Ahrensperg: indagini archeologiche e fasi ricostruttive

Poco tempo fa vi abbiamo fatto conoscere il sito della Grotta di San Giovanni d’Antro, custode della piccola chiesetta omonima. Oggi vi faremo fare un viaggio alla scoperta del perduto castello medievale di Ahrensperg, in località Biacis (Comune di Pulfero). Rivivrete con noi le vicende archeologiche e le recenti fasi di ricostruzione del maniero, un tempo legato alla suddetta grotta e al suo castello (nel precedente articolo, non vi avevamo accennato al fatto che vicino alla grotta di San Giovanni d’Antro, si ergeva un castello del quale non è rimasta alcuna traccia).

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Il castello di Ahrensperg e quelli vicini di Antro, Urusbergo, Zuccola e Gronunbergo (quest’ultimo ubicato sulla riva opposta del Natisone), costituivano un sistema di fortificazioni finalizzato al controllo e alla difesa contro le invasioni da Oriente, dell’antica arteria stradale che collegava Cividale al Norico.

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Ma nel Medioevo, come faceva questa linea difensiva a comunicare l’eventuale pericolo avvistato? Semplice: immaginate questi castelli, collocati in punti strategici in mezzo al verde dei boschi, che durante le notti buie segnalavano il pericolo accendendo uno dopo l’altro un fuoco oppure inviando segnali di fumo durante il giorno, fino a raggiungere la destinazione, in particolare Cividale che fu capitale del Patriarcato d’Aquileia fino al XIII secolo.
Il castello è citato nelle fonti come esistente dal 1251, anche se le indagini archeologiche hanno rivelato una frequentazione del sito già tra il V e l’VIIl secolo. Di proprietà patriarcale («[…] quod castrum Ahrensperg debeat pertineri D. Patriarchae»), fu abitato dai signori di Antro, chiamati in un documento del 1282 «ministeriales ecclesiae aquilejensis». Nel 1306 fu assediato dal Conte di Gorizia e distrutto nel 1364 dal Patriarca Ludovico della Torre, insieme ai castelli di Antro, Zuccola e Urusbergo; a questa distruzione sopravvisse, nella parte nord-ovest dell’area, una porzione dell’elevato di una torre quadrangolare che fu restaurata nel 1927 dall’Italcementi, in occasione della sistemazione del sito per la costruzione della massicciata ferroviaria Tarcetta-Cividale.

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Al 1511 risale la costruzione (probabilmente riutilizzando le pietre del castello) dell’attuale chiesa dedicata ai santi Giacomo ed Anna, presso la quale all’epoca si riunivano la Vicinia di Biacis e la Banca di Antro (o «Banca della 12 di Antro»); quest’ultima era un Consiglio formato da dodici giudici, eletti dai decani della gastaldia, che si riunivano attorno a delle lastre di pietra (o banche) per amministrare la giustizia. Una di queste lastre sopravvive ancora, collocata nel pronao della suddetta chiesa.

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Oggi il proprietario dell’area castellana è il signor Giovanni Pietro Biasatti, il quale ha deciso di ripristinare e ricostruire le strutture del castello per ospitarvi un ristorante specializzato in cucina valligiana, attraendo così turisti curiosi di storia e cucina, e ridando al sito l’importanza culturale che merita.

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Così hanno avuto inizio, nel 2003, le indagini archeologiche ad opera degli studenti del Dipartimento di Storia e Tutela dei Beni Culturali dell’Università di Udine; indagini dirette dalla Prof.ssa Simonetta Minguzzi (docente di Archeologia medioevale) e protrattesi fino al 2011.
Come detto prima, l’unica parte evidente del fortilizio restava la porzione della torre. Tra il 2003 e il 2005 gli scavi hanno interessato la zona antistante la chiesa dei Santi Giacomo e Anna, rivelando le fondazioni di strutture murarie relative al castello e, più a ovest, i resti di un edificio rustico edificato con le pietre del castello in data sconosciuta, in uso sappiamo almeno fino a XIX secolo, e ripristinato tra il 2007 e il 2008.

A partire dal 2009, e fino al 2010, le indagini archeologiche si sono svolte nell’area nord della chiesa, accanto ai resti della torre, riportando alla luce i muri perimetrali, un ambiente seminterrato quadrangolare con la soglia di accesso e quattro scalini semicircolari, e i muri crollati dei due piani sovrastanti.

Nel 2011 si è passati all’analisi dell’interno della torre in vista del suo consolidamento e ripristino, mentre nel 2012 è stata avviata l’opera di ricomposizione del castello, attraverso il ripristino in altezza dei muri crollati, oggi ancora in stato di completamento.

Durante le campagne di scavo sono stati rinvenuti numerosi reperti materiali, interessanti perché in grado di svelarci lo stile di vita degli abitanti del castello: chiodi, colonne decorative di camini, gangheri, frammenti di recipienti in ceramica (risalenti al XIII-XIV secolo) e in vetro, sistemi di chiusura come chiavi e un boncinello, accessori come fibbie, speroni e cuspidi di proiettili per arma da corda.
I reperti saranno esposti presso Casa Raccaro (sempre a Biacis), dove è stata allestita una mostra dedicata all’artigianato di un tempo e agli aspetti rituali e folcloristici del comune di Pulfero.
Un suggerimento, nell’attesa che il castello ritorni a “vivere” e spalanchi le porte a coloro che vorranno assaporare la sua cucina, lasciatevi affascinare dalle fasi di ricostruzione.

Il castello di Partistagno

Il Friuli Venezia Giulia è una terra ricca di castelli. Ce ne sono davvero tantissimi: alcuni sono stati abbandonati e sono semplicemente delle rovine, alcuni sono tuttora abitati e altri, infine, sono stati restaurati e adibiti a musei o convertiti in luoghi di cultura.È questo il caso del castello di Partistagno, oggetto di restauri negli anni scorsi, e attualmente visitabile.

Questo castello si trova in provincia di Udine, tra Attimis e Cividale. Nei dintorni ci sono altre costruzioni fortificate che avevano uno scopo difensivo. Il castello di Partistagno in effetti non è in una posizione così startegica come quello di Attimis (più a nord) o di Faedis (a sud) e ciò ha fatto pensare che la sua fosse una funzione prevalentemente amministrativa. Il nome, Partistagno, è di origine incerta. La prima attestazione risale a un documento del 1096. Il castello è precedente e venne forse costruito dai signori di Attimis. Venne distrutto una prima volta già nella prima metà del XIII secolo e poi ricostruito. Nei secoli successivi il complesso venne ampliato e rimaneggiato.


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Se decidete di fare un salto, vi consigliamo di optare per la domenica per usufruire della possibilità di avere la guida. Avendo subito numerosissimi restauri, alcuni anche sul finire del secolo scorso, non sempre tutti rispettosi delle strutture preesistenti, è facile non cogliere alcuni particolari che, sebbene molto evidenti, tanto raccontano di questa struttura.

Le guide sono molto preparate e sapranno richiamare la vostra attenzione su ogni minimo dettaglio degno di nota.

Come già anticipato, la vicenda costruttiva del castello è alquanto travagliata. Delle strutture attualmente esistenti, la più antica è probabilmente la torre fortificata: un edificio quadrangolare la cui funzione era certamente difensiva dato lo spessore dei muri (1,5 m) e la presenza di feritorie. Anche questa torre ha subito modificazioni non da poco. Se entrate all’interno noterete una struttura molto recente – una specie di forno – che ha una funzione forse didattica. Non vogliamo nemmeno indagare le motivazioni che hanno portato alla sua edificazione. Sta di fatto che di storico o verosimile non ha nulla, nemmeno la posizione.

Originali – e plausibili – sono invece i fori che vedete sulle pareti sollevando un po’ la vista: si tratta degli alloggiamenti per le travi che sostenevano il tavolato che fungeva da pavimento per il piano rialzato.

Torre fortificata
A ridosso della torre potete notare una piccola chiesetta.
Castello di Partistagno Chiesa
La facciata, lo diciamo subito, è ottocentesca (c’è addirittura una targa che ce lo conferma) ma l’edificio è antico. Lo si capisce non appena entrati quando noterete, forse con una certa sorpresa, che l’aula è “storta”. L’abside infatti non fronteggia perfettamente l’ingresso e questo ci suggerisce che in origine la chiesa avesse un orientamento leggermente diverso. È anche possibile che, entrati nella chiesetta di Sant’Osvaldo – questa è la sua dedicazione – la sua forma irregolare non sia stata la prima cosa che vi ha colpiti. Non stupirebbe infatti se la vostra completa attenzione fosse stata piuttosto catturata dagli splendidi affreschi che decorano il catino absidale e che, per ricchezza e vivacità di colori, contrastano nettamente con l’aspetto spoglio e umile del resto dell’edificio.


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Le foto non rendono minimamente l’idea della bellezza di questi affreschi, attribuiti alla cerchia di Vitale da Bologna.

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Il vandalismo – per fortuna o purtroppo – non è un fenomeno che riguarda solo la nostra epoca. Se vi avvicinata alla figura sulla destra, potete notare come un “devoto” del XVII secolo abbia ritenuto fondamentale segnare il suo passaggio in questa chiesa. Un’altra testimonianza è visibile anche sulla sinistra. Il registro inferiore dell’abside è decorato con un affresco che imita il marmo (pietra molto costosa quanto pregiata).
Vandalismi

L’altro edificio, quello residenziale, è stato certamente riadattato nel XV secolo. Ne sono un chiaro esempio le ampie finestre di gusto veneziano (ricordiamo che la Serenissima prese il controllo sul Friuli a partire dal 1419) e i grandi spazi aperti. Durante il periodo medievale, grandi “buchi” sul muro rendevano questo più debole in caso di attacchi. Con la definitiva presa di potere da parte di Venezia, la zona in cui sorge il castello di Partistagno non rappresentava più un’area delicata o strategica. Anzi, il luogo era così tranquillo che si rivelò ben presto poco utile una presenza stabile e il castello venne progressivamente abbandonato.

I restauri recenti hanno consentito di mantenere i resti di alcune strutture davvero particolari e tipiche del periodo medievale e moderno.

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Sospensioni chiassetto

Come potete vedere dalla foto, affacciandosi dalla finestra che dà sulla vallata, vedrete sporgere dal muro delle pietre. Sono i resti di mensole necessarie a sostenere una struttura lignea sporgente alla quale si accedeva tramite un’apertura nella parete e che era forata nella parte inferiore. A cosa serviva? Vi ricordate la novella di Andreuccio da Perugia nel Decameron di Boccaccio? Ad un certo punto della storia, Andreuccio ha una comune urgenza fisiologica…

[…] e richiedendo il naturale uso di dovere diporre il superfluo peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò uno uscio e disse:

– Andate là entro. –

Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contraposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era ; per la qual cosa capolevando questa tavola con lui insieme se n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Idio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto, ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò.

Ebbene sì, quello che potete ammirare è ciò che resta del “bagno” del castello. Se ci fate ben caso, in effetti, al di sotto di questa struttura c’è uno strapiombo ed era quindi il luogo più adatto in cui far confluire quella che Boccaccio definisce “bruttura”. Questa “stanza” sporgente doveva assomigliare a quella raffigurata in questo manoscritto del Decameron del XV secolo, conservato alla Bibliothèque de l’Arsenal di Parigi:


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Tutti – o quasi – i segreti del castello vi verranno svelati dalle guide se deciderete di effettuare la visita accompaganti da loro.
Per avere maggiori informazioni dovete rivolgervi al Museo archeologico medievale di Attimis.

L’eredità longobarda: dal castrum Artenia al castelletto Savorgnan

Ed anche i Longobardi si difendevano nei restanti villaggi fortificati che si trovavano nelle vicinanze, quelli di Cormons, Nimis, Osoppo, Artegna, Gemona o anche Invillino, la cui posizione appariva totalmente inespugnabile.

(Paolo Diacono, Historia Longobardorum, Libro IV, cap. 37)

Così nel Libro IV dell’Historia Longobardorum (1146 d.C.), Paolo Diacono ci mostra le popolazioni Longobarde del Friuli fuggire dalla pianura e cercare protezione nei nuclei fortificati di fronte all’avanzata degli Avari.

castelletto Savorgnan

Siamo nel 610 d.C.. L’uomo forte di allora, il Duca Gisulfo II di Cividale, vicinissimo del Patriarca di Aquileia, cade difendendo i propri territori. Gli sopravvive la moglie, la duchessa Romilda, e gli otto figli.

Sfortunatissima lei: vittima degli eventi e giudicata dalla Storia. Sempre il Diacono la descrive mentre contempla il re Avaro Cacano saccheggiare i dominii del defunto marito:

Romilda, che guardava dall’alto delle mura, vedendolo nel fiore della giovinezza, lo desiderò – meretrice infame – e subito gli mandò a dire che, se lui la prendeva in matrimonio, gli avrebbe consegnato la città con tutta la gente che vi era dentro.

Cacano non aspetta altro. Entra in Cividale e, passata la prima notte di nozze, consegna Romilda alle sue truppe con l’ordine di farne ciò che desiderano, per essere poi impalata nell’accampamento Avaro:

Così di tale morte finì la funesta traditrice della patria, che aveva guardato più alle proprie voglie che alla salvezza dei cittadini e dei parenti.

È in questa vicenda, leggenda al limite di morale cristiana e transilvanica, che il paese di Artegna lascia una prima traccia nella nostra storiografia: un villaggio fortificato che, grazie alle sue mura , ma soprattutto alla sua posizione sulla pianura, ospita un insediamento abitato fortificato.

Oggi, alla cima del colle di San Martino, dove si erge l’odierno castello Savorgnan, si arriva in macchina o a piedi.

Che tale castello non risalga all’epoca di Gisulfo e Romilda, lo leggiamo dall’architettura: balconcini e portali rinascimentali, aperture e spazi altamente irregolari, torrette tardo medievali.

Il castrum di Artenia risale all’epoca romana imperiale: nei pressi del castello si è conservata una cisterna del V secolo, parte di un sistema edificato più complesso rimaneggiato nei secoli seguenti, di cui rimangono visibili terrazzamenti e resti di mura a corredo del castello feudale principale.

All’inizio del XII secolo Orezil de Artenea e Adilbrecht de Retin sono i primi membri del locale casato ricordati dalle fonti, che indicano nel castrum il fulcro di un’enclave carinziana. Fino al 1146 il territorio di Artegna è libero feudo dei Conti di Spannheim e solo in seguito il feudo viene venduto al patriarca Pellegrino di Povo che vi pone una famiglia di nobili fedeli al patriarcato e probabilmente vicini alla famiglia di Spannheim stessa.

In tutto ciò il castello superiore viene progressivamente abbandonato e la famiglia dei Signori di Artegna comincia a costruire attorno ad una precedente torre ubicata a sud-ovest della cinta la propria residenza. In questo modo, nel 1253, Guarnerio d’Artegna è ufficialmente riconosciuto dal Patriarca Gregorio da Montelongo.

In quell’epoca di continue turbolenze socio-politiche la fortuna dei signori di Artegna è altalenante: appena sette anni dopo, lo stesso patriarca Gregorio assedia ed espugna la rocca a causa della ribellione provocata da Guarnerio e affida il maniero principale a un proprio capitano. Sorgono pertanto a ridosso delle mura nuove strutture abitative destinate ai nobili d’Artegna.

Nuovi cambiamenti all’orizzonte: è il 1349 e Bertrando di Saint Geniés (il Beato Bertrando), per accentrare il potere e togliere indipendenza ai nobili friulani, annette la nobile gastaldia di Artegna al popolano capitanato di Gemona. Nell’arco di circa 40 anni, a causa dei feroci contrasti tra gli Artegna, gli Udinesi, i Gemonesi ed il Patriarca, i castelli vengono totalmente distrutti e solo parzialmente ricostruiti.

Gotofredo, ultimo signore d’Artegna, lascia il feudo ai cognati Federico e Giacomo Savorgnan che nel 1389 ne ebbero l’investitura ufficiale.

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Siamo agli inizi del 1400, e le sorti della Patria del Friuli stanno mutando: il Patriarca Lodovico di Teck, ultimo a detenere il potere temporale sulla Patria, entra in contrasto con Venezia e Venezia ha bisogno di espandere la propria potenza.

I signori di Artegna hanno da tempo abbandonato il feudo mantenuto per circa tre secoli e si sono rifugiati nel pordenonese (proprio nel 1410 nasce a Pordenone quel Guarnerio di Artegna la cui collezione di libri sarà una delle più coerenti del Rinascimento, oggi Biblioteca Guarneriana di San Daniele).

Nel 1418, vinti i vicini Ungheresi, nel giro di un paio d’anni Venezia invade il Friuli. Il potere temporale del Patriarca scompare e la sua cattedra è in mano alla Serenissima, che ne fa il buono e il cattivo tempo. Artegna, controllata da Venezia, rimane territorio dei Savorgnan, famiglia filo veneziana. Un ramo cadetto dei Savorgnan, i della Bandiera, ottengono l’investitura del feudo ufficialmente nel 1448 e la conservano fino al 1675 per estinzione della linea maschile.

Oggi, gran parte dei materiali del mastio originale non sono più visibili: nel 1515-19 gli Arteniesi impiegheranno i grandi quantitativi di materiali da tempo radunati a quello scopo per riattare la cappella castellana di San Martino, rovinata dal terremoto del 1511.

In seguito, fino alla fine del 1800 il castello passa alla famiglia Modesti per via ereditaria ed in seguito alla Pieve di Artegna.

Agli inizi del 1900 viene acquistato dai conti Savorgnan di Osoppo che lo ricostruiscono nelle forme odierne, con molte difficoltà: terremoto del 1976 (che comportò la quasi intera demolizione del maniero), la costruzione del vicino cimitero (che ha sostituito parte delle antiche mura) e i vincoli posti in epoca più recente dalla sovrintendenza.

La famiglia l’ha concesso dal 1990 in comodato d’uso gratuito al comune fino al 2058. Raccoglie la storia della cittadina di Artegna, i reperti scavati durante le attività di recupero, mostre temporanee e un bel punto ristoro con vista panoramica.

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Dall’alto della chiesetta di San Martino, con sguardo simile a quello di Romilda dalle mura di Cividale, possiamo ammirare i luoghi in cui si snodava l’antica via Iulia Augusta lungo la pianura Friulana verso le prealpi Giulie: il centro abitato di Buja, l’insediamento industriale di Rivoli che fabbrica nuvole. Più a nord, i monti sono cupi ed incombenti e sembrano nascere dal nulla. Gemona, al nostro fianco, osserva un treno tagliare l’orizzonte verso Udine.

vista dal Castelletto

di Erik S.

Castello Savorgnan di Artegna

Via delle Chiese, 15
33011 – Artegna (UD)
http://www.castellodiartegna.it/